Anteprima del libro di Guadalupe Nettel “Il corpo in cui sono nata”

Abbiamo trovato su www.corriere.it l’anteprima  dell’inizio del romanzo di Guadalupe Nettel, “Il corpo in cui sono nata” (El cuerpo en que nací), in uscita il 24 febbraio da La nuova frontiera (traduzione di Federica Niola, pagine 160, e 16,90). Un racconto autobiografico che mette a fuoco i temi principali della sua narrativa.

L’autrice è nata a Città del Messico nel 1973, nel 2013 ha vinto il Premio di Narrativa Breve Ribera del Duero, con la raccolta “Bestiario sentimentale” e nel 2014 il premio Herralde con il romanzo “Quando finisce l’inverno.

Restiamo così in attesa della prossima uscita e vi proponiamo questo stralcio. Noi siamo già in fibrillazione e non vediamo l’ora di leggere questo testo. Questo incipit ci offre un’idea della necessità di avere la capacità di cogliere le differenze e le anomalie… Temi a noi cari.

Grazie Chiara per la segnalazione.

«Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro.Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello. All’epoca i trapianti di cornea sui bambini appena nati non si eseguivano ancora: il neo era condannato a rimanere lì per diversi anni. L’ostruzione della pupilla favorì lo sviluppo graduale di una cataratta, così come un tunnel privo di ventilazione si riempie di muffa. L’unica consolazione che in quel momento i medici poterono dare ai miei genitori fu l’attesa. Di sicuro, quando la loro figlia avesse terminato la fase di crescita, la medicina sarebbe progredita abbastanza da poter offrire la soluzione che allora mancava.
Nel frattempo consigliarono di sottopormi a una serie di fastidiosi esercizi per sviluppare, nei limiti del possibile, l’occhio pigro. Ciò avveniva con movimenti oculari simili a quelli proposti da Aldous Huxley ne L’arte di vedere ma anche — ed è la cosa che ricordo meglio — con un cerotto che mi tappava l’occhio sinistro per mezza giornata.Era un pezzo di tela con i bordi da incollare come un adesivo.

Il cerotto era color carne e mi copriva il viso dalla parte superiore della palpebra all’inizio dello zigomo. A prima vista sembrava che al posto del bulbo oculare avessi soltanto una superficie liscia. Portare quel cerotto provocava in me una sensazione di oppressione e d’ingiustizia; era difficile accettare di farmelo mettere ogni mattinae che nessun nascondiglio o pianto potesse sottrarmi a quel supplizio. Credo di aver opposto resistenza ogni giorno. Sarebbe stato così facile aspettare di essere lasciata davanti alla scuola per strapparmelo, con la stessa noncuranza di quando mi staccavo le croste dalle ginocchia. Eppure, per ragioni che ancora non capisco, non ho mai tentato di levarmelo.

Con quel cerotto dovevo andare a scuola, riconoscere la maestra e i contorni del materiale scolastico, tornare a casa, mangiare e giocare per una parte del pomeriggio. Intorno alle cinque qualcuno si avvicinava per avvisarmi che era ora di toglierlo e, con quelle parole, mi restituiva al mondo della limpidezza e dei contorni nitidi. Gli oggetti e le persone con cui avevo interagito fino a quel momento mi apparivano in modo diverso.Potevo vedere da lontano e farmi sorprendere dalla chioma degli alberi e dall’infinità di foglie che la componevano, dai contorni delle nuvole nel cielo, dalle sfumature dei fiori, dal tracciato precisissimo delle mie impronte digitali. La mia vita si divideva in due universi: quello mattutino, costituito soprattutto da suoni e da stimoli olfattivi, ma anche da colori nebulosi, e quello pomeridiano, sempre liberatorio ma anche di una precisione stupefacente.

La scuola, date le circostanze, era un luogo ancora più inospitale di quanto tendano a essere le istituzioni di questo genere. Vedevo poco, ma abbastanza da sapermi destreggiare in quel labirinto di corridoi, muri di cinta e giardini. Mi piaceva arrampicarmi sugli alberi. Il mio tatto ipersviluppato mi permetteva di distinguere facilmente i rami solidi da quelli fragili, e di sapere in quali fessure del tronco potevo infilare meglio la scarpa. Il problema non era lo spazio, ma gli altri bambini».

 

2022-02-22T12:34:07+00:00

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